Antonio Ligabue, tra incubo e sogno.
Le Scuderie del Castello di Pavia che recentemente avevano ospitato una splendida mostra su Guttuso, riaprono i battenti per mettere a fuoco l’arte e la personalità di Antonio Ligabue, l’artista di origine svizzera, che espulso dalla sua patria, fu accolto a Gualtieri, un paesino della Bassa, perso tra le nebbie del Po.
L’aspetto fisico a dir poco infelice, la sua precaria scolarizzazione, e ancor più il suo parlare quasi esclusivamente tedesco avevano acuito le difficoltà del trovarsi scaraventato tutto d’un tratto, senza denaro, in un luogo fuori dal mondo, così diverso dalla “sua” Svizzera, il tanto amato cantone di S.Gallo. Fin dall’inizio era stato bollato come “diverso” e le sue stranezze unite al carattere sempre più difficile avevano nutrito le esasperate e spesso crudeli reazioni dei suoi nuovi compaesani. Sua sofferta ancora di salvezza è stato il dipingere.
Il sogno svizzero si materializza in idillici paesaggi all’orizzonte che fanno da sfondo a scene spesso raccapriccianti, mentre gli animali feroci visti da bambino al circo o ricercati nelle famose figurine Liebig e studiati in modo quasi ossessivo, diventano i protagonisti del suo immaginario. La critica per anni ha etichettato la sua arte come naif, forse portata in errore dal suo essere autodidatta e dalle sue scelte fuori le righe, così lontane dall’Accademia imperante. In realtà la sua pittura, ma anche le incisioni e le sculture hanno la forza di un “espressionismo tragico” che potrebbe richiamare “The Tyger” del poeta incisore settecentesco William Blake, piuttosto che i paesaggi tropicali di Rousseau, non certo le superficiali “arcadie”naif che siamo abituati a vedere, tutte fiorellini e pastorelle. Nei suoi innumerevoli autoritratti mutano gli sfondi, per lo più ispirati al suo sogno d’infanzia svizzero, tinto di caratteri fiabeschi, quasi rappresentazione dell’inconscio, mentre la sua espressione, di grande dignità, appare pietrificata e identica in ogni contesto, con gli occhi sgranati, a voler catturare lo sguardo e l’attenzione del proprio interlocutore verso la sua realtà. Alla Van Gogh, si dice.
L’incomprensione sfociava in rabbia e in paura di tutto e di tutti, fuorché degli animali e dei bambini, che come cuccioli inermi non lo intimorivano. All’inaugurazione è stato presente uno dei bambini di allora, ora uomo adulto e autorevole, Sergio Negri che, grande esperto di Ligabue quale essere umano e artista, ha affascinato con le sue testimonianze visionarie e realistiche insieme.
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Testo e foto di Maria Luisa Bonivento